Un reportage diviso in tre parti che accende i riflettori sull’esperienza di migranti intrappolati dal governo bielorusso di Lukashenka e dal partito Verita e Giustizia (PIS) polacco nelle foreste sul confine, dove da quasi due anni continuano ad essere praticati i push back dei migranti di seconda classe: afghani, curdi, siriani e africani, inclusi minori e donne incinte
La prima parte del reportage si concentra sulla traiettoria di Jesephine, Manuel e i loro due figli, intrappolati al confine tra Bielorussia e Polonia. Manuel stava fuggendo dal Paese di origine – Congo – dalle persecuzioni politiche, Josephine da una storia traumatica di violenze sessuali e lavoro in schiavitù. Violenze e persecuzioni che cambiano geografie e radici, ma che nella loro dimensione fisica, psicologica, strutturale e simbolica continuano ad essere perpetuate sui corpi e soggettività dei protagonisti dell’inchiesta.
La seconda parte del reportage guarda alle violenze che si consumano e che marcano il confine bielorusso-polacco attraverso le brevi storie di sei migranti di origine siriana rimasti per 57 giorni “intrappolati” sulla linea di confine, picchiati, senza acqua né cibo.
Nella sua terza parte, il lavoro si concentra sul tema da un punto di vista più di sistema dando al lettore le basi per comprendere la dimensione politica e strutturale delle violenze che abbiamo guardato attraverso le lenti delle traiettorie individuali.
Motivazione della giuria
Il Premio va ad Agata Kubis per la sua capacità di strapparci al nostro quotidiano e di portarci al confine tra Polonia e Bielorussia: un luogo dove si riannodano i fili delle migrazioni globali e che condensa le contraddizioni più crude del nostro tempo. Lo sfruttamento, la questione di genere, l’immigrazione e la guerra sono raccontati in un unico flusso, mostrando come non solo i problemi ma anche le soluzioni dovrebbero essere universali.